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GLI AGIRENSI

Il monte Teja, sul quale è costruito il paese, è alto 824 metri sul livello del mare. Da lassù uno scenario che lascia perplessi: sembra che le costruzioni, impostati con regolare perizia, richiamino le mura dionigiane del castello Eurialo o di un "castrum" romano fortificato. Attorno, più in basso, le rupi scoscese offrono asilo ad una flora frugale. Pianticelle amanti del sole abituate a sopravvivere alle brinate ed ai venti gelidi degli inverni agirensi, spine d'eringi, finocchi selvatici, erbe saponarie o "muccialiebbri", capperi, che si fanno strada tra le fessure delle rocce e danno un tono di colore alle bianche pietre degli strapiombi. In tutte queste epoche questo monte di Agira, la sua natura ardente solare ha sempre influito sul carattere imprevedibile, a volte sonnolento, talora passionale ma mai crudele e violento, delle genti che lo abitano ma soprattutto ha colpito la fantasia e l'avidità degli stranieri che hanno tentato di violentare la sonnolenta tranquillità dei paesani. Sono tremila anni che "sonnecchiano" e da allora tutti hanno cercato di provocare questo carattere strano, di liberare Agira da veri e falsi tiranni, di propinare con il contagocce la loro magnifica cultura e civiltà. Iniziamo con il divino Ercole il quale armato della sua clava diede, secondo lui, una sfoltita liberandoci dalle tribù dei Sicani, peraltro nostri arcaici progenitori. Timoleonte il Corinzio pretese un contributo annuo di cento giumente in cambio della sua protezione. I cartaginesi di Imilicone, nel 396 a.C. fecero il loro bravo tentativo di offrire aiuto, difesa ed amicizia disinteressata, per altro non richiesta. Per non parlare dei Romani: mentre tutto cadeva sotto l'azione inesorabile della latinizzazione, il beneamato pretore Verre ripuliva il paese dal superfluo e agli agirensi non rimase che l'epitaffio di Cicerone..."ac primum de argyriensi populo fideli et illustri conoscite. Argyriensi est in primis honesta civitas siciliae..." cioè gli agirini tennero fede totalmente alle richieste di onorario di Cicerone aggiungendo perloppiù vitto e alloggio. Anche il racconto che fa Plinio nelle sua Istorie sembra uno scherzo ironico..."gli agirensi erano trattati come i popoli del Lazio con i privilegi dei coloni..." E' evidente che lo storico non si recò mai ad Agira. Le cose sarebbero dovute cambiare con l'imperatore Augusto e con la sua Pax Augustea. Questa finì per favorire solo la costruzione di qualche villa per eminenti cittadini romani (come quella ritrovata sotto l'ex caserma dei carabinieri) o la creazione dei Latifunda cioè di feudi dove schiavi e liberti venivano crudelmente adibiti nelle masse (o masserie) come quelle dei Thesauro, Cannameli o Urselluzzo. Dopo il VII secolo, con Belisario, la Sicilia (e quindi anche Agira) divenne provincia bizantina. I Bizantini, mistici, astratti e paludati padroni nelle loro fastose tuniche, segnarono uno scialbo intervallo di appiattimento economico e sociale. Decretarono di onerosi balzelli che vessarono il magro reddito degli sventurati agirensi. Verso l'850 arrivarono i soldati del furbo e crudele Al'Umari. I famigerati saraceni si scontrarono vittoriosamente in contrada Gebbie (chiamata poi piano dei morti) con un grosso contingente bizantino. Chi non si sottomotteva ad Allah veniva trattato a fil di scimitarra mentre i superstiti avviati ai mercati di schiavi. I più fortunati potevano vivere in relativa tranquillità dietro pagamento di un imposta sugli infedeli detta "Kharajh". Al'Umari fece costruire degli "amsar", piccoli presidi fortificati presso contrada Gianguzzo, Galati e Frontè collegati tra di loro e battuti da cavalieri berberi che riscuoteva i tributi della popolazione locale. La conquista del paese da parte Normanna trovò sicuramente gli agirensi assuefatti alla dominazione islamica. I normanni, nel 1093, erano già i padroni di Nicosia, Sperlinga ed altri centri viciniori e la resistenza opposta dai saraceni asseragliati ad Argiriu, non li fece avanzare animati da pacifiche intenzioni nei confronti dei paesani orami quasi islamizzati. Ma un triste episodio li rese alquanto furiosi e cioè la morte del Conte di Sarlo, figlio naturale di Ruggero d'Altavilla. Anche se la morte del giovane avvenne nel corso di uno scontro leale ciò che inasprì i guerrieri d'Olptralpe fu il macabro e crudele seguito del duello con l'esposizione della testa del giovane Conte su una picca alle porte di Nicosia. I normanni, di spirito generoso e valente, erano spesso crudeli e vendicativ. Infatti, con uno spiegamento di armati ed armi notevole, presero Agira instaurando un nuovo periodo di dominio. Nuove leggi e nuovi oneri per il popolo agirense ad iniziare dallo "jus primae noctis" cioè la prima notte della sposa da consumare con il signorotto locale anzichè con il marito. Il popolo non poteva abbandonare il territorio del feudo tantomeno possedere alcuna proprietà o immobile. Tra questi "signori" è necessario ricordare Wiliemo Spatajo che limitò l'area di competenza feudale ai corsi d'acqua e ai torrenti che circondavano Agira. La ricostruzione dei confini, grosso modo, può essere fatta così: a nord il fiume Salso, a sud il Dittaino, a est il vallone Giacchia e a ovest il vallone Salito. Tra questi feudi viene ricordato ancora Scalpello, formato da 552 anime, suddiviso poi in Vaccarizzo e Saracini ed assegnato all'Abbazia di Santa Maria Latina. Ai Normanni successero gli Svevi i quali posero le basi per un regno unitario. Federico II, resosi conto che nei vari comuni siciliani regnava anarchia e indipendenza, instaura un nuovo concetto antifeudale ed autonomo. Egli appariva animato delle più buone intenzioni verso il popolo siciliano e di conseguenza nei confronti degli agirensi. Ma il malcontento maturò ben presto in aperte ribellioni. Era il tempo dei famosi moti guelfi già iniziati in Sicilia fai dal 1232. La reazione del Monarca fu spietata ed estinse nel sangue le sollevazioni popolari perseguitando i paesi ribelli tra i quali Agira. Con la morte di Federico, avvenuta nel 1250, le ribellioni non cessarono. Anzi. Nel frattempo Carlo D'Angiò, investito dal Papa Clemente VII, Re di Sicilia si presente in Sicilia con l'aria di conquistatore aumentando conseguentemente i moti di rivolta. Per una volta tanto gli agirensi reagirono in maniera degna di un popolo oppresso, e spogliati di derrate e bestiame, perseguitarono gli sgherri provenzali fino ad impiccare un loro capo tristemente famoso, un certo De La Court, in una vallata del paese che da allora si chiamò Piano della Corte. Dopo gli Angioini troviamo gli Aragonesi o i "riunisi" come li chiamavano in gergo locale. Nel 1354 si fermò ad Agira il reuccio Ludovico,po insorge la civiltà barocca e ad Agira si registrò un accorrere di architetti, maestranze, carpentieri, manovali, carrettieri con conseguente incremento della popolazione locale. Si rifanno prospetti delle chiese e conventi lesionati e diruiti, si arricchiscono gli interni di stucchi, dorature, marmi ed affreschi, vengono fuori insigni artisti che non mancano di lasciare la loro impronta; ricordiamo "La vergine della vera luce" e del "Rosario" di Pietro Novelli, il sarcofago in marmo con la statua del S. Patrono di Antonello Gaggini ed alcune opere di scuola caravaggesca e gagginesca come la Madonna della Visitazione, recentemente salvata dalla rovina da un associazione di tutela del patrimonio artistico. Nel 1693 parte di questi lavori andarono distrutti in seguito al catastrofico terremoto che interessò anche Agira. Accenno ad un episodio miracoloso verificatosi prima del furioso cataclisma. Si tramanda che una pia vecchietta del quartiere dell'attuale Abbazia, sognasse San Filippo che esortava di avvertire i paesani a mettersi in salvo. Nel racconto la vecchietta anticipa che il 13 agosto il campanile dell'abbazia sarebbe caduto e rialzato tre volte indenne. Creduta dalla maggior parte dei fedeli, questi uscirono all'aperto. Allo schioccare della fatidica data, mentre altre costruzioni rovinavano furiosamente, solo ed esattamente per tre volte, il campanile della chiesa Abbazia oscillò paurosamente ritornando dritto tra la mistica esaltazione religiosa e la costernazione degli agnostici. Nel secolo XVII scoppiarono nell'isola numerose rivolte antispagnole, fomentate dalla Francia, che portarono alla liberazione dalla Spagna ma per finire sotto il dominio della Francia stessa. La cosa curiosa è che se avessero chiesto ad un contadino di allora se sapesse chi era il re di Sicilia del tempo avrebbe risposto sicuramente ..."u Riuzzu Fulippuzzu" sconoscendo completamente gli eventi avvenuti dopo il 1712 e tantomeno Vittorio Amedeo II di Savoia. Per effetto della controriforma si registrò in paese un lento ma inesorabile regresso economico e politico con il ritorno alle antiche egemonie delle classi dominanti. Con Ferdinando IV di Borbone la Sicilia mancava assolutamente di attività produttive. Tutto questo portò con gli anni a dei moti rivoluzionari particolarmente violenti ad Agira dove il dottor Francesco Scavone, quale rappresentante del Comune, ebbe l'incombenza di organizzare una milizia nazionale per difendere il paese dalla minaccia della polizia borbonica. Il piccolo esercito, formato perloppiù da contadini, braccianti, pecorai e disoccupati, furono il primo corpo di polizia agirense. Scavone si oppose con fermezza poco dopo agli emissari del re che chiedevano frumento ed animali da macello. Rifiutò con tale fermezza, attorniato dal popolo di Agira, che gli emissari ritornarono sul cammino di Palermo. Per episodi di liti comuni si stilava una semplice inchiesta; la cronaca di quel tempo accenna ad un increscioso avvenimento registrato negli archivi della gendarmeria locale che così recitava: (documento esclusivo) REGNO DELLE DUE SICILIE "Il giorno diciotto dell'anno milleottocentotrentasette in codesto Regio Distretto di Gendarmeria del Comune di San Filippo di Agira, circondario di Nicosia e provincia di Catania, in presenza di me, Sopraintendente Bartolomeo Pistone e testimoni infrascritti si dichiara: i religiosi monaci frate Vincenzo Stancanello e frate Gaetano Mugavero dimoranti nello Monasterio di San Giuseppe........da me personalmente inquisiti causa annose questioni di limiti et sconfinamento del rabbioso cane nivoro, dello industrioso religioso Don Filippo Cucchiara del defunto massaro Giuseppe abitante nel quartiere di S. Antonio Abate, da me puranche conosciuto. Qualmente lo Stancanello e lo Mugavero, nell'orto confinario di un tumolo lorodo dello quivi presente Don Filippo procuratogli grave ferimento alla mano dritta per colpo da fuoco da trizzarola.....!" Da questo gustoso resoconto e da quello che solito raccontare i nostri vecchi, ho colazioni" Nel 1877 una legge garibaldina impose parità di diritti e doveri di tutti i cittadini di fronte allo Stato e la soppressione delle proprietà collettive delle congregazioni dei beni della Manomorta con l'imposizione di speciali tasse di successione a carico di enti morali e religiosi. Tutto ciò disturbò le vecchie fazioni dominanti le quali escogitarono un triste sistema, tutto meridionale, di reazione alle novità delle leggi che potevano ledere ai loro interessi. Diedero così vita, in segreto, ad una specie di "onorata società" che agiva nell'ombra ed ai margini delle leggi dello Stato. Si formarono le famiglie mafiose, una spietata gerarchia con i suoi Don e le cosche formate dai cosiddetti "uomini d'onore" e la manovalanza che dettava legge accaparrando denaro feudi e bestiame. Era nata la massoneria oggi conosciuta in tutto il mondo come mafia. Nel 1882 un regio decreto esortava le autorità a limitare certi privilegi delle comunità conventuali ed ecclesiastiche. Ad Agira detto decreto fu interpretato in modo curioso cioè sostituendo l'antico stemma comunale del 1354 recante l'aquila biteste e l'immagine di San Filippo con la nuova figura di Ercole che abbatte l'Idra di Lerno, impronta tratta da una antica moneta di Agira. Finalmente si giunge all'unità nazionale ma rimangono irrisolti parecchi problemi. Ad Agira era in voga una quartina in dialetto che testimoniava le problematiche del tempo: "Nanni nuostri ca durmiti Suonnu eternu ntra li disa, Un momentu l'uocchi apriti Smasciddatevi di risa Risu sia di cumpassioni A vidiri stu Cumuni, Cc'u sta nova elezioni, ca va sutta a ruzzuluni! Pp'a mania di cumannari E ppi fari di patruni, Fici oggi arrisurtari Sta maniata di cirvidduni! E tu Erculi divinu Scinni nterra ad ogni costu Ti darannu u ' pacchittuni Pp'i n'u votu e tuttu è a postu. Si la Musa resta muta Jamuninni difilatu: pirdunatimi Cci sarà n'atra elezioni ca onistà, amuri e passioni Tuttu quantu metti i'latu! In questo allegro clima da macchietta mosse allora i primi passi faticosi la neonata democrazia agirina. Nel 1901 la popolazione residente era di 17634 anime ma con meno di 800 aventi diritto al voto. Agira, prima elezione politica: i votanti furono 522. Nelle amministrative 707. Alle comunali solamente 94. Le donne e i cittadini analfabeti non avevano diritto al voto. La bassa percentuale di suffragi non era dovuta sola all'analfabetismo ma a quell'ignavia e a quella indifferenza della popolazione nei confronti della democrazia. Quella situazione faceva esplodere le ire del vecchio avvocato Licciardo, che nelle sue infuocate filippiche, soleva così investire i concittadini: "...il popolo di San Filippo è quel popolo che si commuove solo all'arrivo di un cofano di sardelle...". Agira passa tra le sofferenze della prima e seconda guerra mondiale ed è oggi uno tra i paesi meno popolati della provincia di Enna. I fasti dei secoli passati sono ormai solo un mero ricordo e spero che gli abitanti dell'Agira di allora preghino che uno scampolo di Arcadia o un avanzo del giardino delle Esperidi possa sfiorare questo paese. Oppure è meglio sperare che tutto rimanga com'è? Chiudo con un invocazione presa a prestito: "BEATI QUELLI CHE NON HANNO STORIA!" 
                                                                                                                                                                                                              
   
 
 
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